«Nemmeno io so ancora cosa sia la benevolenza. Quando abbiamo cominciato a studiare teoreticamente le ragioni per cui, in Italia o fuori dall’Italia, la gente dona, ci siamo trovati davanti questo concetto, benevolenza, e ci è sembrato molto più ricco di altri sinonimi che spiegano le ragioni del dono. Abbiamo così iniziato a studiare il significato e magari un giorno arriveremo a pubblicare un libro con tutta la filosofia della benevolenza.
“Che cosa è la benevolenza?” Prendo in prestito dal filosofo Leibniz la definizione che lui dà che, come punto di partenza, è valida. Egli dice: delectatio in felicitate alterius e lo possiamo tradurre in: godere della felicità di un altro; bellissimo concetto. Ma mi domando, questo è possibile? Godere della felicità di un altro? Non siamo tutti d’accordo che la felicità è conseguenza di aver ricevuto qualcosa, non dell’aver dato qualcosa? È quindi possibile questo delectatio in felicitate alterius?
Esso è specifico dell’essere umano; nessun altro essere nel cosmo fisico è capace di questo. L’animale non può essere benevolente, nemmeno l’animale che diciamo essere intelligente o generoso: chiarisco che sono un amante degli animali sin da quando ero bambino, ma la benevolenza è specifica della natura umana.
E questo perché? Intanto, come tutte le virtù, specifiche dell’essere umano, esse possono crescere, diminuire o scomparire completamente. Alla totale scomparsa della benevolenza nell’essere umano chiamiamo ciò con una parola: egoismo. Non esiste altro termine.
“Perché l’animale non può avere benevolenza?” Perché esso non può mai uscire dal campo degli istinti. L’animale vive sempre in un presente, e cosa succede in quell’animale che sembra compiere generosità ed abnegazione verso altri? Semplicemente, rimane nel suo campo istintivo ricevendone una gratificazione, una sorta di “mi sento bene”.
Un animale non ha biografia, mentre un essere umano ha biografia e può indirizzarla. Questa è la ragione per cui un animale non può assumere mai un dovere morale. La sua natura non lo permette.
La benevolenza fa allontanare l’essere umano dall’autoreferenzialità dei propri istinti, allontana da questo mondo che può diventare relativamente chiuso. Riuscire ad amare qualcuno per se stesso, non per la soddisfazione che lui o lei mi dà, ma amare qualcuno per se stesso, è specifico dell’essere umano e su questo si supporta la benevolenza. Ed è proprio grazie alla benevolenza che io posso allontanarmi dall’ostilità e perfino dall’indifferenza verso un altro essere.
La benevolenza non mi permette di essere indifferente di fronte a qualcun altro o agli altri. Naturalmente, mi sento pienamente interpellato dal concetto di benevolenza quando mi dispongo a dare (il dare è sempre darsi); la persona che dà – molto o poco – sta dando se stessa. Io so cosa vuol dire sentirmi responsabile degli altri quando mi dispongo a donare quello che ho e quello che sono, soprattutto quello che sono.
La benevolenza è sempre volontaria, non è mai imposta, per ragioni diverse dalla percezione dell’altro come persona umana, e qui potevamo fare una grandissima parentesi su cosa è scoprire la persona umana in me o in un altro.
“Perché chiamo “persona” una persona?” Sto chiedendo il contenuto di quella evidenza; questo sta alla base di tante cose; la più importante è l’amore: l’amore scopre nell’altro, la persona che l’altro è.
Per questo, nell’Università Campus Bio-Medico abbiamo il lemma la persona al centro, che non è originale; se andiamo a cercare in altre università od ospedali americani, il concetto de la persona la centro si ripete moltissimo; e allora perché è stato scelto? L’originalità non sta nel la persona al centro ma nel la persona, concepita come persona, al centro; non una persona come un oggetto, un ente. Questo vuol dire che “si inizia” non dallo studente o paziente, ma dal medico primario, dalla persona dell’accoglienza, e poi allo studente, al paziente…
La benevolenza non è nemmeno richiesta dalla giustizia. La giustizia è evidentemente indispensabile nel rapporto con gli altri, ma essa, da sola, senza la benevolenza, rimane incompiuta, non realizzata, e spesso è sterile e perfino ingiusta.
I romani lo avevano scoperto e lasciato a noi con il motto: Summum ius, summa iniuria (somma giustizia, somma ingiustizia); se io costruisco una società, creata sui rapporti di giustizia, cioè con un insieme di doveri e diritti, ciò è tremendamente ingiusto, alla fine. Manca infatti la compassione, la misericordia e la benevolenza, senza di cui Summum ius, summa iniuria, senza dubbio.
“Quando mi dono, cosa perseguo?” Perseguo il contribuire alla crescita della persona nella sua umanità e nella sua dignità umana. Non sto dando per la lotta contro il cancro o per la ricerca su…, sto dando per il fine della persona umana. Se non si vede questo fine manca ancora qualcosa, non è ancora benevolenza. E questo è precisamente delectatio in felicitatis alterius, ovvero rallegrarsi della felicità altrui, felicità che ho potuto contribuire a creare negli altri.
Il donatore, naturalmente, è invisibile in questo processo, e il moto del donare viene dalla compassione, dalla condivisione, dalla compartecipazione nella vita degli altri.
Alla domanda ultima che pongo adesso: “quale beneficio per me, quando io mi dono e dono agli altri?” Si potrebbe rispondere rapidissimamente: “con nessun beneficio se non uno: la autorealizzazione di me stesso come persona”; quella potenzialità – che vedevamo prima – che è specifica solo nella persona umana.
Qui entrerebbero altre considerazioni di tipo religioso o altro, ma voglio deliberatamente mantenermi, per ora, nella condivisione di qualche idea sul piano puramente umano; questo spiega l’apparente paradosso per cui ogni atto di benevolenza è soprattutto un dono, ma un dono per chi dona. Se con questa mia relazione sto autorealizzando tutte le potenzialità che sono nella mia natura, ogni volta che mi dono, il dono è per me, più che per l’altro. È la mia responsabilità di me con me stesso, che mi porta a tutte le conclusioni della benevolenza.
Colui che possiede risorse, risorse della terra, sa che quelle risorse saranno molto più preziose se da esse scaturirà un atto donativo – appunto un atto di benevolenza – che non è dissipativo ma misericordioso, ossia pieno di comprensione e di vicinanza per l’essere degli altri; l’abilità sta nel farlo popolare. Allora, alla domanda che Paolo Arullani si poneva: “Can Benevolence change the world?”, io risponderei: “sì, la benevolenza può cambiare il mondo anzi, il mondo cambia nel modo in cui la benevolenza viene esercitata”.
Tutto quello che ho detto è provvisorio, perché sono idee che stiamo cercando di approfondire; vediamo se un giorno, quel libro, la Fondazione lo potrà finire».
La “Benevolenza”: l’ultima intervista di Joaquín Navarro-Valls
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